Ancora mezz’ora

Ora – Rimasto solo con te, sdoppiato nel proprio sapere, fra cento specchi falso con te stesso, fra cento rimembranze incerto, fiaccato da ogni ferita, freddo a ogni gelo, strozzato dai propri lacci, tu che conosci te stesso! Tu giustiziere di te stesso!

L’uomo al centro della stanza fissa il muro. I versi sono scritti in tedesco sopra la pagina di un vecchio giornale, risaltano, l’inchiostro è rosso. La scrittura è incerta, come se a scriverli fosse stata la mano di un bambino sostenuta e guidata dalla mano di un vecchio. L’uomo continua a restare immobile, studia l’inquadratura, muove la testa lentamente, si avvicina alla parete come per mettere a fuoco un particolare.
Di scatto si volta e si dirige verso il letto.

«Schicksal, ich folge dir!» mi sussurra all’orecchio.
«Destino, io ti obbedisco» si affretta a tradurmi Anna Maria, «e non volessi dovrei pur farlo e farlo tra i sospiri!» continua e conclude la frase.
Sono quasi le cinque del mattino nella stanza, Anna Maria mi traduce incessantemente i tormenti di Friedrich che si aggira nella penombra mormorando. «Dov’è la mia solitudine?», si chiede.
Anch’io, istupidita dalla voglia di sonno, irritata da quel molesto andirivieni, stringo le mascelle chiedendomi dove sia la mia di solitudine. Il mio destino mi avrebbe svegliata alle 7 e da tranquilla indisciplinata, forse, sarei riuscita a portargli via ancora mezz’ora.
Ma sono sottomessa al destino di un altro, dominata da un incessante formicolare di parole, un bisbiglio più irritante del ronzio di una zanzara.

Tutto è statico all’interno della stanza, anche la luce cinerea che filtra dai tendoni scuri di trevira non ha diffrazione. Vecchi giornali alle pareti, appunti, frammenti di oggetti, macchie o passaggi di impronte. Alla rinfusa edizioni economiche di classici dall’aspetto scadente, uguali a quelle vite ingiallite che si abbandonano la sera sul divano come giocattoli rotti.

Sono smaniosa, le lenzuola odorano di me, una nota di frutta sbucciata, faccio un lungo respiro. Anna Maria è seduta ai miei piedi, non parla, traduce solo i deliri di Friedrich, mi piace questo. Non aggrapparsi ai pensieri di qualcuno, non sentirne i commenti, le lamentele, le prediche, le bugie. Quante bugie dette con la convinzione della verità. Conoscerne invece solo la voce: signore e signori ecco a voi il timbro!  Ecco ammirate l’intensità! Questo si che tranquillizza, si ha la consapevolezza di una verità superflua, e ci si sente domestici come i cani.
Un’amante perfetta per le parole di un uomo, di questo uomo, sottomessa ai suoi desideri, alle sue intenzioni. Una giovane suorina innamorata, piena di ardore per il suo signore, spogliata di tutti i suoi piaceri, dei fronzoli della carne, nuda! per non contaminare di sé  l’essenza del verbo.
Eccola accanto a me, la donna che non ha parole! Sarà questa “la presenza nella distanza” che ogni miserabile uomo brama in una donna, il desiderio di un ombra scura.
Mi abbandono così al suo contorno, cerco le sue spalle nell’unico smisurato specchio in fondo alla parete, ma riflette solo la mia faccia. Strizzo gli occhi per mettere a fuoco, ma Tutto è offuscato, Tutto è inclinato tra questi muri, Tutto è sul punto di piegarsi. È la camera oscura di Arles. Un letto, due sedie, un tavolo e la finestra chiusa in sé stessa, senza panorama.

«Gebt heisse Hande!» dice Friedrich. Anna Maria si gira lenta dalla mia parte e ripete «Datemi mani calde!». Reclina leggermente il capo, inumidisce le labbra e continua «datemi bracieri per il cuore!... braccata da te, pensiero!...».
«Basta! Basta!» supplico, ma la sua voce, ora quasi delirante, continua ostinato come un remo controcorrente.
«Desidero, io desidero. Si, io desidero! Fatela finita tutt’e due» grido senza che la voce riesca ad uscire dalla bocca. Mi aggrappo al letto «No! Non ascoltarlo! Ascolta me!» dico ad Anna Maria.

La scena di noi, forme diverse di una stessa creatura, che si ripete all’infinito dentro quello spazio finito, in un tempo inarrestabile.
Mi risuona in testa la frase «datemi bracieri per il cuore!».
Il bisogno di un abbandono mi rende la pelle urente, la carnosità delle labbra umide di Anna Maria m’inchioda a terra, il mio corpo è pesante, sono un’incudine precipitata su una nana bianca.
Sono quello che sono. No, siamo quello che siamo e voglio crederci. Li guardo, ho gli occhi scuri e lucidi, si avvicinano entrambi. Loro sanno che sono ciò che sento! Ed io sento, sento estasi e mente… mente? Oh ragione, chi mente?  Amo le parole ingannevoli, il volume della doppiezza. Sento il barbaglio della luce che mi offusca, ho gli occhi accecati come davanti ad una distesa di neve senza inizio. Nella luce non si sta bene. Non devi riflettere. Mi sono smarrita, rincorro i pensieri, sfuggono veloci. Cerco di catturare le immagini, le voglio, ma somigliano a miraggi assolati, frusciano all’orizzonte del pavimento. Inumidisco le dita con la lingua ho voglia di sentirmi, d’ingoiare i sapori di cui sono piene le mie mani.

Friedrich è di nuovo vicino. L’ho ripreso, sono un pescatore di sogni, allento la lenza e poi giro il mulinello, allento e tiro, tiro e allento la presa. Lo rivoglio, mi distrae dallo sragionare. È di nuovo mio, finalmente. Si distende al mio fianco e mi accarezza il ventre, una carezza tanto mite da impietosire. Anna Maria è ora al buio della sua stessa ombra e gli sfiora la mano. Guardo il suo soffuso chiarore, l’alone azzurrastro di un pianeta distante, quando lei d’improvviso si china rapida, quasi un granello incandescente, e poggia le sue labbra sulle mie.
L’eco del petto inonda la stanza.
Solo 60 secondi di attesa per lo sviluppo della scena: un cuore sformato dentro quest’alba intatta.

Mi alzo, i piedi a terra, sono così sconcertata. Asciugo il collo con il lenzuolo, vorrei ancora quella mezz’ora. Ho sete, ma non servirà a nulla l’acqua. Non laverà il sapore del risveglio, né bloccherà il fremore sotto la lingua che mi allaga la bocca di saliva e non potrà riempire il vuoto che ora ho sospeso nello stomaco, disgustoso più della fame.  
Ancora mezz’ora per non guardare l’istantanea che adesso è sopra il letto, sospesa ad un filo di nailon.

Ah! se al risveglio “ i lividi fossero baci”.
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di Santa Spanò

2 commenti :

  1. Grazie, davvero intenso questo incontro tradotto con Friedrich.

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    1. Non si può dire che non abbia meditato la risposta... :D
      Ma le notifiche a volte sono bizzarre, in questo caso come il racconto.
      Le tue parole m'incoraggiano tanto e tanto devo, una dichiarazione d'amore appunto, a voi traduttori/scrittori. Grazie di cuore Silvia

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